Tutti sanno che la Vergine Maria è associata, nel cuore della Chiesa, a un’immensa tradizione spirituale che medita la sua figura, canta la grazia della sua persona, celebra la sua partecipazione all’opera di salvezza, trova sostegno nel suo accompagnamento materno.
Le figure più insigni della storia cristiana affiancano i credenti più umili in una uguale fiducia e pietà filiali verso colei che il concilio di Efeso dichiarò solennemente theotòkos. Tuttavia, senza sminuire questa realtà che è parte integrante del patrimonio cristiano, non è improprio tornare un po’ alla fonte della fede e della pietà, ossia alla testimonianza delle Scritture.
Si sa che, per la sua sobrietà, tale testimonianza contrasta incredibilmente con la sovrabbondanza, o meglio l’esuberanza, della teologia e della pietà mariane. Il fatto è che la presenza di Maria nel racconto evangelico è parsimoniosa e discreta. Si tratta di un paradosso evidente che sarebbe un peccato trascurare e non interrogare. Si potrebbe forse giungere a una maggiore conoscenza di Maria. E si potrebbe anche riuscire a superare il disagio che alcuni cristiani provano oggi rispetto a una certa spiritualità mariana. In realtà l’esaltazione della Vergine Maria è ben lungi dal proteggere dalla misoginia. Prova ne sono i tanti discorsi che contrappongono Eva — debole e tentatrice, che rappresenta la donna di sempre — alla Vergine pura e santa, costituita a modello di una femminilità fatta di obbedienza, di servizio e di annullamento, modello di cui gli uomini hanno largamente abusato.
Ricordiamo brevemente alcuni elementi dei documenti scritturali.
È un dato di fatto che i vangeli di Luca e di Giovanni menzionano Maria in due punti decisivi del racconto evangelico. Maria viene presentata fin dall’inizio in Luca, nell’Annunciazione e nella Visitazione, e in Giovanni, all’avvio del ministero pubblico, con le nozze di Cana.
È poi menzionata di nuovo nel momento finale della passione, quando in Giovanni 19, 25-27 sono riportate le parole di Gesù che consegnano l’apostolo Giovanni nelle mani di Maria e affidano Maria a Giovanni. L’inatteso appellativo, nel quarto vangelo, della madre di Gesù come «donna» (gynè) sottolinea la posta in gioco teologica attribuita qui alla sua presenza. Dopo la resurrezione, il libro degli Atti degli apostoli indica la sua presenza nella camera alta, dove avviene l’effusione dello Spirito santo.
Ma, al di là di questi riferimenti, il corpus mariano non è fatto che di brevi menzioni, messe in bocca ad avversari che intendono screditare Gesù facendo notare che è solo «il figlio di Maria» (Matteo 13, 55 e paralleli). A ciò si aggiunge l’episodio in cui Gesù reagisce alla domanda di sua madre e dei suoi «fratelli» venuti a parlargli: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?» (Matteo 12, 46-50 e paralleli). La sua risposta, solitamente considerata brutale, è in realtà molto istruttiva per lo spostamento che opera: «chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre». L’asserzione è confermata in Luca 11, 27-28, quando Gesù rifiuta le parole della donna che celebra il ventre materno che lo ha portato, spostando di nuovo la beatitudine verso «coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano», lontano quindi da considerazioni sulla maternità fisica di Maria. Questi ultimi fatti, sicuramente sconcertanti, racchiudono però una lezione importante: l’identificazione di Maria, l’esplicitazione del suo ruolo e della sua preminenza nel mistero della salvezza possono creare malintesi. Invitano dunque a usare prudenza e a fare attenzione.
«Beata tu fra le donne»: questo appellativo dato a Maria da Elisabetta, che conosce il segreto di sua cugina mentre lei stessa riceve la grazia di una nascita impossibile, deve richiamare l’attenzione. L’espressione è magnifica, ma deve essere intesa correttamente, ossia astenendosi dall’interpretazione che vorrebbe che lei «unica tra le donne, seppe piacere a Dio», come riteneva un autore del v secolo e come l’ha sottinteso una lunga tradizione. Il testo evangelico, nella sua versione sia greca sia latina, la designa bene come colei che è «tra», «tra le donne», che trova posto nel nutrito corteo delle generazioni femminili che si succedono da quando il mondo è mondo. E in tale contesto Maria, naturalmente, si trova innanzitutto vicina alle sue contemporanee, parenti, vicine, amiche, che vivono al ritmo di un villaggio della Galilea del I secolo. La nostra memoria storica fatica a far rivivere queste vite di donne, tanto sono votate culturalmente all’annullamento. Esegeti e storici si sforzano oggi di restituire qualcosa di loro, un qualcosa che però non va oltre ciò che dice allusivamente il Salmo 128: «La tua sposa come vite feconda nell’intimità della tua casa».
Eppure, nel caso di Maria, questa umile condizione è strappata alla banalità. In primo luogo perché quella vita nascosta, dove nulla sembra degno di particolare attenzione, fa toccare il mistero dell’incarnazione di Gesù stesso, descritto in Galati 4, 4 «nato da donna», che si fa vicino alla condizione umana nella sua più grande modestia. In secondo luogo perché il racconto evangelico risuona di forti riferimenti biblici, che collegano Maria alle donne d’Israele di cui le Scritture conservano e celebrano la memoria.
La presenza di Elisabetta, la sterile, che partorisce nella sua vecchiaia, inscrive nel Vangelo, sin dall’inizio, questa storia femminile, che serve da sostegno al compimento del disegno di Dio. Proprio come il Magnificat, che riprende le parole di Anna, madre di Samuele. Così Maria appare al termine di una lunga discendenza di donne che, a partire dalle matriarche e passando per Rut, Giuditta, Ester e molte altre, hanno concepito, nella potenza di Dio, le generazioni d’Israele o che, in questa stessa potenza, sono state le garanti del futuro del popolo nei momenti di pericolo. Infine, Maria è evocata nelle parole che l’associano alla Figlia di Sion, i cui tratti la tradizione profetica esalta anticipatamente a partire dall’esilio, associandola all’opera di salvezza che Dio compirà. Ed è quello che esprime il saluto dell’angelo dell’Annunciazione, dove il termine greco chàire si deve intendere come un “gioisci” che riprende Sofonia 3, 14, Zaccaria 9, 9 e ancora Gioele 2, 21-33, invitando la Gerusalemme messianica alla gioia di sapersi rivestita da Dio degli abiti della salvezza. Stavolta è evidente, la figura di Maria travalica le generazioni femminili d’Israele per eguagliarsi all’intero popolo, generato da Dio alla santità, a partire dal piccolo resto che si è mantenuto umilmente nella speranza.
Si può pertanto celebrare Maria come il verus Israel, nel senso che tutto ciò che la definisce è di fatto compimento della vocazione del popolo eletto. Così Maria viene posta, come nessun altro essere umano, nel cuore ardente dell’alleanza, là dove Dio conduce al punto estremo la sua volontà di salvezza per l’umanità e là dove questa umanità accede a una giustizia che compie la sua verità divina.
Lo stesso accade quando Maria acconsente all’inaudito annuncio dell’angelo, definendosi lei stessa «serva del Signore». Lungi da un’interpretazione negativamente ancillare, si sa che è questo il titolo che Mosè riceve da Dio e che conserva fino a Apocalisse 15, 3, ed è anche il titolo dato al re David, e naturalmente al popolo che, a detta dei profeti, fa tanta fatica a onorarlo nella storia veterotestamentaria. L’umiltà associata alla parola «serva» trova a sua volta il suo vero significato alla luce della rivelazione: antidoto all’orgoglio che conduce alla morte, è ciò a cui il Dio d’Israele ha esortato continuamente il suo popolo, insegnandogli che è quella la via maestra, l’arma della vera potenza, che confonde e sconfigge i superbi. Le parole del Magnificat, che celebrano il Dio che «ha rovesciato i potenti dai troni», lo esprimono bene.
Verus Israel Maria lo è più che mai, come «colei che ascolta». Anche in questo, compie, ossia porta alla sua pienezza, il compito affidato al popolo dell’alleanza nello shema Israel (cfr. Deuteronomio 6, 4), lei che sa percepire la voce di «fine silenzio» dell’angelo dell’Annunciazione. Ed è proprio su questo “ascolto” che Gesù pone l’accento per rettificare la beatitudine che esalta il ventre che l’ha portato. Ora, ascoltare è anche serbare la parola ricevuta, come fa Maria in Luca 2, 19 e 51, adempiendo all’ingiunzione che definisce ugualmente la vocazione d’Israele nella tradizione deuteronomica. E infine ascoltare e serbare è credere, cosa di cui Elisabetta rende merito a Maria: «beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore» (Luca 1, 45).
È proprio su questo credere che il vangelo di Luca pone l’accento in due occasioni. Un credere che dobbiamo interrogare e contemplare, chiedendoci come Maria ha creduto al giusto. Non bisognerebbe di fatto eludere la domanda con il pretesto che, in quanto Madre di Dio, concepita senza peccato, sarebbe vissuta con una lungimiranza che le avrebbe risparmiato l’oscurità della fede e che alla fine l’avrebbe dispensata dal credere. Ma non è così che i vangeli la rievocano. Al contrario, fin dall’Annunciazione che suscita la sua domanda «come è possibile?», la sua vita è costellata da stupore. Il racconto della natività in Luca la descrive mentre serba nel suo cuore il ricordo di realtà alquanto sconcertanti. Come si può pensare che le parole di Simeone, durante la presentazione del bambino al tempio, non abbiano suscitato la sua perplessità? Perplessità espressa chiaramente nell’episodio in cui Gesù, adolescente, resta nel tempio, mentre i suoi genitori sono ripartiti. Il «figlio, perché ci hai fatto così?» non viene affatto chiarito dall’enigmatica risposta di Gesù, che dice di doversi occupare delle cose del Padre suo. Il testo commenta sobriamente che Maria «serbava tutte queste cose nel suo cuore». E ancora, come immaginare la prova vissuta da Maria durante i trent’anni di vita nascosta di Gesù, che sembrano annullare tutto ciò che lei aveva sentito profetizzare di suo figlio? E durante quel lungo periodo Maria non sperimenta forse il mistero della kènosis di Gesù così come l’esplicita l’inno nella lettera ai Filippesi? E ancor di più quando questa kènosis culmina sul Golgota. Dovremmo credere che la madre sia stata risparmiata dallo sconforto del figlio: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?»? Il fatto è che Maria resta presente, fino alla fine. Stabat mater. Rimane lì tutta la notte, nella prova della contraddizione, «mettendo insieme» (secondo il significato stesso della parola greca symbàllousa in Luca 2, 19) l’evidenza del fallimento assoluto e la fiducia senza parole nel fatto che Dio salva, anche in quella perdita.
Questa è la fede del «cuore assennato» di Maria, secondo l’espressione di Proverbi 14, 33, che è anche il cuore che Salomone chiedeva a Dio nella sua preghiera (1 Re 3, 9). Ed è da questo cuore — che ascolta e serba, che aderisce al disegno nascosto di Dio nel bel mezzo delle tenebre che sembrano smentirlo — che Gesù è generato. Ed è a questa fede che Maria genera la Chiesa: fede coraggiosa, resistente, che affronta il crollo di tutte le immagini idolatriche di Dio che la croce contraddice e denuncia. Così, vivendo e generando da questa fede, Maria di Nazaret trascende completamente il modello di femminilità al quale troppo spesso la si è voluta assegnare. È in questa donna, associata all’opera divina della ricreazione dell’umanità, come la cantava sant’Anselmo, che l’intera Chiesa è invitata a riconoscersi maternamente generata, per portare nel presente oscuro in cui viviamo la testimonianza della vittoria del risorto, a dispetto di tutte le prove contrarie.
Anne-Marie Pelletier
Tratto da Donne Chiesa Mondo