La testimonianza coraggiosa della giovane yazida, rapita e violentata dai militanti del sedicente Stato islamico. In un libro ripercorre l’orrore vissuto e i sogni rubati nel genocidio del suo popolo
«Sogno che un giorno tutti i militanti risponderanno dei loro crimini, non solo i capi come Abu Bakr al-Baghdadi, ma tutte le guardie e i proprietari di schiave, ogni uomo che abbia premuto un grilletto e spinto i corpi dei miei fratelli nelle fosse comuni, ogni combattente che abbia tentato di fare il lavaggio del cervello ai ragazzini inducendoli a odiare le loro madri per il fatto che erano yazide, ogni iracheno che abbia accolto i terroristi nella propria città e li abbia aiutati, pensando tra sé: “Finalmente possiamo sbarazzarci di quei miscredenti”. Dovrebbero andare tutti a processo di fronte al mondo intero».
Fino a pochi anni fa, il sogno di Nadia Murad era finire gli studi e aprire un salone da parrucchiera nel suo villaggio, nel nord iracheno, dove avrebbe acconciato sontuosamente le spose nel loro giorno più speciale. Ora, dopo essere stata strappata dalla sua vita semplice e serena e aver conosciuto la violenza inumana nascosta dietro al fondamentalismo religioso, vuole solo giustizia. Perché Nadia, ventiquattro anni, viso pulito che ha conservato, nonostante tutto, qualcosa dell’innocenza dei bambini, ha avuto la sorte terribile di sperimentare sulla sua pelle la folle barbarie del califfato nero, quando nell’estate del 2014 i militanti del sedicente Stato islamico, che stavano allargando la propria presenza in Siria e nella regione settentrionale dell’Iraq, spuntarono con il loro minaccioso convoglio di camion all’orizzonte del villaggio di Kocho. Quando Nadia e i suoi fratelli li scorsero a distanza, capirono subito che la loro vita sarebbe stata sconvolta per sempre. Kocho, non lontano dal monte Sinjar, faceva parte di quell’area del Paese abitata da 400 mila yazidi, un antico popolo che ripone la sua identità in una religione non legata all’islam, conservata intatta per molti secoli nonostante la diffidenza del mare musulmano che la circondava. La devozione a Tawusi Melek, l’angelo pavone che per gli yazidi è il più importante messaggero tra l’umanità e il Dio unico, è valsa a questa gente l’infamante (quanto infondata) nomea di «adoratori del diavolo», all’origine di discriminazioni e ripetuti genocidi: esattamente 73, secondo i racconti tramandati di padre in figlio, disseminati in una storia lunghissima e travagliata. Che ora, nell’Iraq preda di rinnovate divisioni etniche e religiose, minacciava di ripetersi per l’ennesima volta.
«Nelle comunità sunnite si andò diffondendo l’odio nei nostri confronti. Forse era sempre stato lì, appena sotto la superficie. Adesso era uscito alla luce del sole e dilagava in fretta», ricorda Nadia. Il nome e il volto di questa giovane donna che mai avrebbe immaginato di lasciare l’Iraq oggi sono noti in tutto il mondo, perché Murad fa parte delle pochissime, tra le settemila ragazze e perfino bambine yazide rapite e ridotte a sabaya, schiave sessuali del Daesh, che una volta riuscita a fuggire ha deciso di diventare una testimone della catastrofe abbattutasi sul suo popolo. Ha parlato pubblicamente non solo dei suoi sei fratelli e della mamma massacrati dai macellai del Daesh ma anche delle torture e degli stupri sistematici subiti, è diventata ambasciatrice di buona volontà dell’Onu per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani, ha ricevuto il premio Sakharov del Parlamento europeo per la libertà di pensiero ed è stata candidata al Nobel per la pace.
Ora ha scelto di affidare la sua storia a un libro, scritto con la giornalista Jenna Krajeski e appena uscito in Italia per Mondadori: L’ultima ragazza. Storia della mia prigionia e della mia battaglia contro l’Isis (prefazione di Amal Clooney, pagine 334, euro 20,00). Lo ha fatto per far conoscere a quante più persone possibile le violenze vissute e quelle di cui è stata testimone, ma anche per cercare di farne comprendere le origini, delineare il contesto geopolitico in cui si sono scatenate e, non da ultimo, denunciare connivenze e responsabilità parallele.
«Presto ci era giunta notizia che molti degli arabi sunniti nostri vicini avevano accolto i militanti e si erano addirittura uniti a loro – racconta –, bloccando le strade per impedire agli yazidi di mettersi in salvo, per poi saccheggiare i villaggi deserti insieme ai terroristi. Ma eravamo ancora più sconvolti dai curdi che avevano giurato di proteggerci: senza alcun preavviso, i peshmerga erano fuggiti dal Sinjar prima che i militanti del Daesh li raggiungessero». Inizia così l’inferno di Nadia: rapita, venduta al mercato delle schiave, finita nelle mani di un giudice riverito quanto brutale nei confronti della sua preda, passata di mano in mano ad altri militanti, violentatori seriali. «A un certo punto non resta altro che gli stupri», annota la giovane. «Diventano la tua normalità. Non sai chi sarà il prossimo ad aprire la porta per abusare di te, sai solo che succederà e che domani potrebbe essere peggio. Il passato diventa un ricordo lontano, come un sogno. Il tuo corpo non ti appartiene e non hai le energie per parlare, per ribellarti, per pensare al mondo esterno. Non avere più speranze è quasi come morire». Eppure, riflette, «la morte non era arrivata. Nel bagno del posto di blocco scoppiai a piangere. Per la prima volta da quando avevo lasciato Kocho credetti davvero di morire. Ed ebbi la certezza di non volerlo».
È proprio questo ostinato attaccamento alla vita che un giorno, tre mesi dopo il suo rapimento, spinge Nadia ad aggrapparsi alle poche energie residue e, vincendo il panico, approfittare di una svista del suo aguzzino per fuggire. Vaga come in trance in una Mosul sospesa nel terrore, finché si decide a bussare a una porta qualunque. Inaspettatamente, la famiglia (sunnita) che aprirà quella porta la ospiterà e l’aiuterà a fuggire nel Kurdistan iracheno. Seguirà il ricongiungimento con i fratelli superstiti e l’opportunità di andare in Germania come rifugiata, dove Nadia Murad è diventata un’attivista a fianco della ong Yazda. «Nadia non ha soltanto ritrovato la propria voce, ma è diventata la voce di tutti gli yazidi rimasti vittime di questo genocidio», scrive Amal Clooney nella prefazione. L’avvocatessa, assistente legale di Murad, sottolinea il recente risultato di questo impegno: «Il Consiglio di sicurezza ha adottato una risoluzione epocale, istituendo un team investigativo con il compito di raccogliere le prove dei crimini perpetrati dal Daesh in Iraq. Significa che le prove verranno conservate e i singoli membri del Daesh potranno essere processati». Un passo fondamentale perché il sogno di Nadia possa, un giorno, diventare realtà.
Chiara Zappa su Avvenire 28 dicembre 2017
Foto: Nadia Murad (ora 23enne) durante il suo intervento al Consiglio di Sicurezza dell’Onu sul genocidio degli yazidi, dicembre 2015 (Reuters)
L’attivista yazida Nadia Murad ha vinto il premio Nobel per la Pace 2018 insieme al medico e attivista congolese Denis Mukwege. Entrambi sono stati insigniti per il loro impegno contro l’uso della violenza sessuale come arma di guerra.